11 settembre 2001

N.7, VOL. II, 2001

11 settembre 2001.

Oggi è il mio compleanno. Dovrebbe essere una ricorrenza gioiosa, ma il cuore è gonfio a causa di un evento che ha sconvolto il mondo. Non mi è possibile staccare la mia mente da quelle immagini, che ormai tutti hanno ripetutamente visto, proiettate sui loro teleschermi o stampate nei quotidiani locali. Quello che è successo era ed è inimmaginabile. Non è solo un assalto al modus vivendi di noi occidentali, bensì un atto d’odio sfrenato che trova ben pochi paragoni nella storia proprio per la sua calcolata “freddezza” nell’attuazione. Tutti noi, qui a New York, conosciamo una o più persone che erano nella zona del disastro. Quella zona, che con la sua popolazione giornaliera di oltre 50.000 pendolari era quasi come una cittadina infilata nel nucleo finanziario della metropoli, offriva lavoro a gente di tutto il mondo che veniva da tutti i quartieri newyorchesi. La ramificazione dei contatti umani delle vittime è quindi complessa ed estesa. Non è questo però il vero problema. Siamo turbati dalla possibilità di una guerra alle “ombre”, siamo impressionati dalla precisione matematica dell’attacco, siamo impietositi dalle molte storie di fratelli amici e coniugi che hanno dato l’addio telefonicamente ai propri cari, nella consapevolezza dell’inevitabile morte, e siamo sconcertati dalle reazioni d’esultanza d’alcune popolazioni islamiche all’annuncio della tragedia. Incidentalmente, il primo morto estratto dalle macerie è stato quello del cappellano dei pompieri, martire tra i martiri.

Il clima sociopolitico non è come quello che normalmente esiste dopo una calamità naturale. Il cittadino comune ha risposto in abbondanza, come di consueto, alle richieste d’aiuto, sia con la presenza d’innumerevoli volontari al sito della catastrofe sia con la creazione di svariati “fondi” per orfani e per la ricostruzione del “centro”, ma nell’aria non c’è la rassegnazione che accompagna questi momenti tragici, bensì indignazione. L’America, e con essa il mondo occidentale, è stata ferita, sia dalla scomparsa dei propri figli sia dall’immane perdita economica diretta ed indiretta causata dall’episodio terroristico. Qualora, però, l’effetto desiderato di questi attacchi sia stato l’annientamento psicologico di questa società, l’iniezione del “terrore” nella vita di tutti i giorni dell’americano comune, il fallimento è stato completo.

Piangiamo per i nostri fratelli, è vero (tra l’altro, ben tre pugliesi sono stati confermati tra gli scomparsi: Domenico Berardi, Donato Pesce e Grazia Susca in Galante) e temiamo per l’incolumità dei nostri figli, come qualsiasi persona responsabile dovrebbe fare nel corso di una guerra, ma non abbiamo paura, perché sappiamo che la nostra società, pur con tutti i difetti che la contraddistinguono, è fondamentalmente sana e supererà anche questa tribolazione.

Mentre scrivo, il mio collega Leonardo Campanile, Direttore Responsabile de L’IDEA di Brooklyn, dirige la squadra dedita al taglio dei cavi elettrici sotterranei che servono la zona del World Trade Center. “È il mio lavoro”, dice lui, come tipico newyorchese abituato ad affrontare le difficoltà della vita con la filosofia che li caratterizza, “certo che l’atmosfera è surreale, sembra quasi di essere all’interno di uno studio cinematografico. Nel profondo speri sempre che poi, quando torni a casa, tutto si riveli solo un brutto sogno oppure il frutto dell’abilità degli esperti degli effetti speciali, ed invece…”.

Qualcuno m’invia per posta elettronica uno stralcio della predizione di Nostradamus che dovrebbe confermare l’imminente distruzione di New York. Di primo acchito mi prende una stretta al petto, residuo dei miei lontani incubi infantili pervasi da esplosioni nucleari. Che bel regalo di compleanno! Subito dopo, quasi simbolicamente, ricevo la telefonata dall’Italia che mi conferma la visita di mia madre e di una delle mie sorelle in occasione delle feste natalizie. La vita continua…